Disegnavo i "Panni al sole" con la tecnica del divisionismo e, puntino dopo puntino, mentre le figure dei panni si disegnavano, i miei pensieri lentamente lasciavano la testa, e si appendevano anch'essi al filo, a prendere aria e luce.
Finita l'opera, quella sottile, balsamica sensazione svanì, così come misteriosamente si era creata. Provai a disegnare per diletto. Puntinai case, volti, paesaggi, ma erano solo puntini e poi figure. Dunque, non era quello il punto. La connessione con i pensieri erano i panni e gli appendini. E quando lo capii, molto tempo dopo, quando le mie mani adulte non sapevano più disegnare, e la miopia non mi avrebbe permesso di arrivare a mettere insieme una figura composta anche solo da dieci puntini, cominciai a cercare una fibra, su cui poter imprimere i pensieri, e poi stenderli al sole.
Mi laureai in chimica, lavorai con le fibre tessili, da quelle antiche alle più moderne. Passai mesi nella Foresta Amazzonica, per apprendere dall'immenso polmone verde il segreto della fotosintesi. Mi trasferii da un resort a una capanna, ospite della tribù Pachoco. Le donne Pachoche creavano una immensa quantità di oggetti commestibili e di uso comune, impastando le fibre della corteccia d'albero, di sudori dei bruchi, le polverine delle lucciole e i loro propri sputazzi in varie terrine. Cominciai a farlo anch'io, e impasta e intreccia, e rammollisci e fai seccare, ecco che uscì la mia fibra. Grezza e pesante, di un colore mezzo di terra e mezzo di fuoco. Dovetti unire insieme cinque spine di istrice argentata per fare un ago che potesse trapassarla. Ma un giorno. Un panno di quel tessuto, passato sulla fronte per darmi refrgerio in una giornata di tremendo calore, poi bagnato e messo steso. Ritornò quell'antica sensazione quasi dimenticata. La stoffa appesa lentamente si sfibrava, disfaceva, prendeva colore proprio mentre i fili si separavano dalla forma.
E così, insieme i miei pensieri si staccavano dalla mente, e prendevano aria, e poi volavano appesi ognuno ad un solo filo, nitidi, nel vento.
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