sabato 13 agosto 2011

LO STRIZZACAPELLI - Kiki Bobò -




Amici e amiche. Lasciate che sottoponga alla vostra attenzione questo oggetto di incredibile utilità e valore umano, di autocura e di liberazione interiore. Questo oggetto non è stato registrato all'ufficio brevetti, perchè all'ufficio brevetti si brevettano sì le invenzioni, ma solo quelle di pratica utilità. Qui invece siamo di fronte alla sfera del sublime e del subliminale, dell'intimismo, della ricerca intrapsichica! Ma che dico ricerca, qui è già stata trovata la soluzione, vediamo cosa. E' molto semplice: vi sentite talvolta affranti, appesantiti da pensieri che vi danno il tormento, e che sembra non vogliano mai liberare la vostra testa? E' già capitato di provare la sensazione come se il cervello pendesse più da un lato? Avete delle idee molto ingombranti, vorreste liberarvi da alcune di esse, ma non credete al fatto che potreste trovare giovamento da una seduta dallo strizzacervelli, oppure ci credete ma pensate nel contempo al vostro portafogli che si sente peggio di voi?
Qui di seguito troverete una valida alternativa alle sedute da seduti, che si realizza in piedi, mentre fate jogging, mentre lavorate, o quando siete in siesta. La tesi da me proposta è suffragata da casi clinici, che qui riporto mediante immagini; consiste nello strizzare i vostri capelli, che sono ancorati al cuoio capelluto, che è ancorato alla calotta cranica, che comunica con la corteccia cerebrale, che è attaccata al cervello!
Siete sognatori e poco pratici? Fate un raccolto a sinistra, alleggerite di eccesso di creatività l'emisfero deputato alla fantasia. Se il problema è l'opposto, e siete troppo razionali, stimolate la parte destra, strizzando i capelli ben bene.
Avete problemi con entrambe le sfere, diciamo così? Due belle belle trecce strette strette. I capelli faranno cadere giù gli eccessi di idee e convinzioni.
Pensieri grevi, pesanti? Cercate di tendere a immagini più nobili, a pensieri elevati, annodate i capelli verso l'alto, meglio se raggruppati in piccoli ciuffi
Al lavoro un piccolo raccolto sopra la nuca coniuga polso e razionalità con animismo e visione cosmica.
Gli individui flower power e peace and love si tengano ancorati alla terra mantenendo una visione pratica della vita con un raccolto basso basso.
I quasi calvi, o i "riportati", usino qualche cautela in più, vedano dove sia il caso di lavorare, ma non si sentano esclusi dal poter giovare di questo metodo.
Per le ricce come me, haimè, gli strizzacapelli servono solo per mettere un po' d'ordine, perchè i pensieri e le idee si nascondono facilmente fra i trucioli.
Ma il metodo è testato, non invento niente, amici e amiche, non ci sono forse centinaia di sensori e di piccoli capelli SULLE ORECCHIE DEL MIO CANE ??




FIORDILATTE & SODA (CAUSTICA) -Kiki Bobò -



Lo dicono tutti, la vita è dura. Ma a me tutto sommato, piace godermela, e mi arrangio come posso. Certo, i miei sacrifici li faccio anch'io, per esempio, la mattina devo uscire di casa molto presto per riuscire a sfilare dal pacco di quaotidiani lasciati davanti al bar, la mia copia fresca fresca, prima che arrivi ad aprire il proprietario. Quindi arrivo in largo anticipo al lavoro, e non avendo di meglio da fare, utilizzo il ferro da uncinetto sottratto un giorno al parco alla mia vicina di panchina, per scassinare la macchinetta del caffè, riempirmi le tasche di moneta, e poi, in successione, riscaldarmi con un cappucciocc, una brioche con confettura alle amarene, tè con tarallucci, caffè corto, e una barretta di cioccolato per metà mattina.
Quando giunge l'ora del timbro, se i colleghi arrivano in massa, certe volte per scaglionare le entrate (non mi piace la ressa), inavvertitamente verso della colla liquida nello spazio della timbratura, di modo che con un po' di disguido, la folla entri al lavoro per lo meno quando io mi sono già sistemato.
All'ora della pausa, visti gli sguardi sospetti del mio collega quando consumo merende e merendine, preferisco rimanere solo in ufficio, allora con il mio ferretto da calza manometto la fotocopiatrice, uno scherzo da poco, s'intende, risolvibile in quindici minuti, tempo della pausa del mio collega, responsabile della fotocopiatrice.
La pausa pranzo amo condividerla ogni giorno con quelli che lavorano con me (a rotazione), e che in fondo sono quasi sempre gentili, tanto da pagarmi il conto, quando imbarazzato alla cassa apro il portafoglio ma ho sempre guardacaso una banconota in meno, e non posso pagare la mia cifra. In effetti, non consumo molto, e mi arredo la casa piano piano con i premi a punti del supermercato: con un po' di attenzione individuo un single un po' svampito, oppure una contessa di alto lignaggio, li seguo alla cassa, mi ci metto dietro, e al momento di pagare, quando ricevo i millecinquecentomilabollini, aspetto la domanda giusta:"A me non servono, li vuole lei?". Ringrazio, e sorrido per educazione. Ma devo dire che a volte  a quella contessa e a quello svampito darei una spinta, quando flemmatici e indecisi mi costringono a fare su e giù per il supermercato!
C'è una cosa che adoro: andare al parco.
Ci sono due cose che detesto: i vigili, e i proprietari dei cani. Individuati gli uni e gli altri, li tengo insieme occupati e fuori dalla mia vista con una semplice scorciatoia: mi reco dal vigile, e con aria compunta e contrita, riporto il fatto.
 "Mi scusi, agente, non se ne può più, quei cani laggiù, li vede? Ecco, hanno fatto, come dire, i bisognini, che poi chissà cosa gli danno da mangiare, oggigiorno sono diventate, mi permetta, delle gran cagate, e i loro padroni le lasciano lì !! No, ho visto bene, vada a controllare di persona, sono lì nell'erba, vada, si, grazie, ma no, ci mancherebbe, se si può aiutare a mantenere l'ordine...".
E fatto il mio dovere, e libero da impicci ed impiccioni, mi siedo a un tavolo del mio bar preferito, quello col gazebo e le palme, mi immagino in vacanza, e ordino il mio solito: "Un fiordilatte e una Soda!".

L'APPENDIPENSIERI - Kiki Bobò -



Fu mentre preparavo una tavola da disegno per il mio esame finale di terza media, la riproduzione di un quadro di Giuseppe Pellizza da Volpedo, che mi accorsi che i pensieri si sciolgono nei tessuti come la neve al sole.
Disegnavo i "Panni al sole" con la tecnica del divisionismo e, puntino dopo puntino, mentre le figure dei panni si disegnavano, i miei pensieri lentamente lasciavano la testa, e si appendevano anch'essi al filo, a prendere aria e luce.
Finita l'opera, quella sottile, balsamica sensazione svanì, così come misteriosamente si era creata. Provai a disegnare per diletto. Puntinai case, volti, paesaggi, ma erano solo puntini e poi figure. Dunque, non era quello il punto. La connessione con i pensieri erano i panni e gli appendini. E quando lo capii, molto tempo dopo, quando le mie mani adulte non sapevano più disegnare, e la miopia non mi avrebbe permesso di arrivare a mettere insieme una figura composta anche solo da dieci puntini, cominciai a cercare una fibra, su cui poter imprimere i pensieri, e poi stenderli al sole.
Mi laureai in chimica, lavorai con le fibre tessili, da quelle antiche alle più moderne. Passai mesi nella Foresta Amazzonica, per apprendere dall'immenso polmone verde il segreto della fotosintesi. Mi trasferii da un resort a una capanna, ospite della tribù Pachoco. Le donne Pachoche creavano una immensa quantità di oggetti commestibili e di uso comune, impastando le fibre della corteccia d'albero, di sudori dei bruchi, le polverine delle lucciole e i loro propri sputazzi in varie terrine. Cominciai a farlo anch'io, e impasta e intreccia, e rammollisci e fai seccare, ecco che uscì la mia fibra. Grezza e pesante, di un colore mezzo di terra e mezzo di fuoco. Dovetti unire insieme cinque spine di istrice argentata per fare un ago che potesse trapassarla. Ma un giorno. Un panno di quel tessuto, passato sulla fronte per darmi refrgerio in una giornata di tremendo calore, poi bagnato e messo steso. Ritornò quell'antica sensazione quasi dimenticata. La stoffa appesa lentamente si sfibrava, disfaceva, prendeva colore proprio mentre i fili si separavano dalla forma.
E così, insieme i miei pensieri si staccavano dalla mente, e prendevano aria, e poi volavano appesi ognuno ad un solo filo, nitidi, nel vento.

giovedì 11 agosto 2011

LABIRINTO LABILE -Kiki Bobò-



Dunque, ci provo. Girare a destra e poi a sinistra, proseguire dritto. Rivedere i passi. O non si torna mai sui propri passi?
Uso un sistema di misurazione della vita spannometrico, andrà bene con la lunghezza delle mie scarpe di tela?
Mi imbattei in un vicolo cieco - come nei film, sbarrato da bidoni della spazzatura.
Le curve sono ad angolo, i miei fianchi sono larghi e mi ci incastro. Torna indietro. Ti sei persa.
Ma ho sempre desiderato perdermi. Per qualcuno, in uno spazio arieggiato, dentro le pagine di un bel libro, certe volte tra i volti della gente, per non farmi riconoscere. Da chi?
Dalla mia strada. Ma sei tu che cerchi lei!
E questo sarebbe il modo per trovarla? Arrancare in un labirinto? PRECISAMENTE.
Ma ho anche le fiacche ai piedi, disturbi di equilibrio, non so capire le bussole, non ho molliche di pane da lasciare per ritrovare la via, che non è più ritorno nè arrivo. E' solo un percorso.
E' proprio qui che sto. Qui dentro, intorno, al centro del percorso, che non ha centro. solo trame, trame di labirinto. Le destre e le sinistre, i poli terrestri, sono convenzioni scivolate via dalle mie tasche.
Sono così indecisa.
No, ho deciso. Io resto qui. Insieme al percorso, oltre che dentro.
Che sia la meta, a trovare me, eh, e che è.
Non mi ricordo più bene, però: era la meta, o la metà?

METAMORFOSI DI UNA MACCHIA -Kiki Bobò-



Nacqui come una specie di sputo, da un errore di un asino scolastico. Una enorme macchia di inchiostro nero, su un foglio a righe di terza elementare, colata da una stilografica Pelikan, messa in mano a un bambino che probabilmente non sapeva usare nemmeno la matita.
Per tentare di rimediare al fattaccio, il bambino mi impiastrò ancora peggio sul foglio, così che io mi allargai, mi sfumai, e acquisii numerose appendici. Il quaderno sul quale mi trovavo finì a casa della maestra del bambino, per la correzione dei compiti. la maestra aveva un figlio adolescente, che accorse a vedermi quando sentì la madre urlare di terrore, e si mise a ridere, ma la madre-maestra lo sgridò. Il ragazzo si offese, e di nascosto prese il quaderno, mi trovò, e mi disegnò sopra; così diventai uno scarafaggio. Ero molto brutta, ma almeno avevo una forma.
Quando il bambino tornò in possesso del quaderno, più che rimanerci male per il 4 scritto in rosso che dominava il fondo della pagina, si stupì di me che ero diventata scarafaggio, e corse dal padre per mostrarmi, e disse che il suo quaderno era magico, perchè trasformava le cose. Il papà del bambino disse "si, si", ma si vedeva che pensava ad altro. La sera frugò nello zaino del figlio e prese il quaderno, riflettè sul fatto che quella forma di scarafaggio altro non era che la rielaborazione in chiave avvenieristica della città di Turlù, e che lui l'avrebbe perfezionata. Il padre del bambino era un topografo.
Finii così con tutta la pagina, compreso il 4, dentro un file di computer. Ero dimagrita e stilizzata, ora piatta, ora in tre o più dimensioni. C'era anche il 4 che serviva a far capire che Turlù aveva 4 entrate e 4 uscite. Dunque, ero una città.
Partecipai ad una grande mostra sull'urbanistica, occupavo una mezza parete ed ero sottovetro. Passò di lì anche un architetto artista, che disse che era della città di Gilbrao, in Brasile, e che Turlù era gemellata con Gilbrao, e che per renderle omaggio avrebbe realizzato una scultura a forma di città di Turlù, da esporre al centro di una piazza della città di Gilbrao. Finì che mi trasferii in Brasile, da carta a file, passai ad essere di resina e cristallo. Si stava bene, ma a stare sempre fermi al centro della piazza, un caldo. Conobbi molta gente. Certo, tutte amicizie di passaggio, forse perchè dopotutto la straniera ero io. Finchè un giorno successe che una ragazza mi rimase a lungo seduta accanto, mi guardava e sorrideva, sorrideva e mi guardava, poi si chinava sul suo notes e disegnava. Ad una certa ora la raggiunse un ragazzo, e cominciarono a parlare.
"Questo mondo così dolce" -la sentii dire- "questo posto così bello, e guarda quest'opera, che connubio tra terra e cielo, che appendici eteree tendono all'infinito! Una forma familiare, sono lontana, eppure mi sento a casa: Forse è perchè tu sei qui con me". E si baciarono.
Comunque, finii ricopiata sul suo block notes, con un tratto sottile e armonico, finalmente mi vidi pervasa dalla grazia femminile. Ma mi sentivo molto stanca.
Non potete capire il mio stupore, quando tempo dopo mi ritrovai in un laboratorio di Turlù! La simpatica ragazza era un ottico, si innamorò di me perchè le ricordavo il suo paese, e perchè sotto di me si baciò col suo ragazzo. Decise che non importava che forma avessi, perchè si vuol bene ovunque, e attraverso qualsiasi forma.
Mi creò intorno un caleidoscopio, per lasciarmi trasformare, cambiare forma, dimensione e colore.
Solo una cosa non cambiò in me: il mio affetto per lei.





Leaved:
20/08  Villa Geno Como

mercoledì 10 agosto 2011

NON SONO DEPRESSO PERCHE' SONO RAFFREDDATO (in certi casi, meglio metterci una pietra dentro) -Kiki Bobò -



Cominciò con un disturbo, quello si. Una specie di ottundimento del sensorio, un'indolenza che si svegliava con me di mattina, e mi rimboccava le coperte di sera. Dopo alcuni giorni di tale impreciso malessere, consultai la mia tessera sanitaria dove avevo riposto l'indirizzo del mio medico di base, dal quale non ero mai stato. Decisi di recarmi da lui quel giorno stesso.
"Mi dica", mi chiese cortese. "Di cosa si tratta".
"Dottore, mi sento stanco", cominciai, "mi sveglio e mi sento intontito, qualcosa mi attanaglia la testa, al lavoro ho difficoltà a concentrarmi. Mi sembra di vivere dentro a una bolla. E poi  mi è diminuito l'appetito.".
"Al mattino peggiora?" si informò lui.
"Che dire, al mattino già mi sento male, e ancora di più al pensiero di affrontare una giornata pesante. Sa, per il mio lavoro ascolto musica, sono un fonico, arrivo ad un punto che mi esplode la testa".
"E alla sera migliora?" si interessò il dottore.
"Che dire, alla sera l'unico sollievo è il pensiero che vado a dormire. Non riesco ad assaporare gli altri piaceri della vita".
"Capisco", disse lui improvvisando un'espressione quasi greve, "io le farei fare due chiacchiere con questo medico, mi sembra la cosa più appropriata perr la sua problematica, ed è meglio non far passare molto tempo, questi sintomi non vanno presi sottogamba".
"No", dissi io, "infatti, solo che speravo che lei già mi prescrivesse qualcosa...insomma...di che si tratta?".
"Vede, il dottor Assone Alberto è uno psichiatra. Lascerei trovare a lui la combinazione più appropriata, la cura più giusta per lei..".
"Uno psichiatra? Sinceramente non pensavo...ecco...mi sento un po' preso alla sprovvista!"
"No, non si preoccupi", fece il dottore, sostituendo la sua aria greve con un'espressione quasi leggera, "deve solo ripetergli quel che ha detto a me, nè più e nè meno. Al resto penserà lui. Mi dia retta, ci vada subito.".
Così feci. Trasportato nella e dalla mia bolla, mi recai il giorno dopo dal tale Asone Alberto, psichiatra. Studio austero, mobilia in rovere, pensai che "L'urlo" di Munch appeso dietro la scrivania avrebbe potuto evitare di appenderlo.
"Mi dica, che cosa la porta da me?", mi chiese intrecciando le dita delle mani.
"mi ha consigliato di venire qua il mio medico di base, in quanto mi sento la testa pesante tutto il dì, un groppo in gola, e se possibile anche nel naso, nonostante dottore io abbia sempre goduto di ottima salute, mai un acciacco, mai un raffreddore...", e così esposi in maniera quasi romanzata i miei problemi, pensando che la differenza tra essere un paziente di medico di base e paziente di psichiatra, fosse nell'esposizione sintetica o descrittiva dei sintomi.
Lui mi ascoltò in silenzio, poi estrasse dal cassetto della scrivania un ricettario.
"Cominciamo con cinque gocce al mattino di Euphorix. Alla sera, invece, dieci gocce di Eurelass Plus Plus. Poi nel contempo prendiamo una compressa di Moral-up Fast da 10 mg, da aumentare a 20 tra 20 giorni, e a 40 tra 40 giorni.".
Stavo per chiedergli se fosse una cura da dover assumere in due, visto che usò i verbi al plurale, ma mi trattenni, e riuscii solo a dirgli "grazie dottore".
"Ci vediamo tra venti giorni", mi disse tendendomi la mano.
Mi recai immediatamente in farmacia a comprare i miei rimedi.
La sera presi la pastiglia e le 10 gocce. Dormii come un riccio. E la mattina successiva non mi alzai in tempo per il lavoro. Inoltre sentivo le fauci secche ed un impellente bisogno di "sgranchirmi" le mascelle ogni due minuti: pensai che i farmaci favorissero gli esercizi di rilassamento della muscolatura facciale. Dava fastidio, però.
Passarono i giorni, ed in effetti qualcosa successe: stanco ero stanco, ma con una voglia crescente di mordere la vita. Comprai dieci sveglie con forme e suonerie diverse, perchè per dieci giorni di fila non riuscii a svegliarmi in tempo per andare al lavoro. Ugualmente non ci sentivo bene, ma il gioco di stelline proiettato sul soffitto della camera, mi faceva ridere. Mi facevano ridere molte cose! Alla macchinetta del caffè, il collega che dopo aver infilato la moneta riceveva solo il bicchierino con il latte e niente caffè...al mercato, la borsa con la frutta che si rompe e la vecchietta che non riusciva a chinarsi..c'erano un sacco di cose simpatiche che succedevano e che mi provocavano autentici scoppi di risa. E poi le idee. Ero pieno di idee. Forse erano anche quelle di prima, ma io chiacchieravo di più, tanto , e con tutti! Se non fosse stato per quel catarro in gola, che non riuscivo ad espellere, e che mi saliva fino alle orecchie, tanto da non farmi quasi sentire i commenti alle mie esilaranti battute. Beh, la vita si illuminava ogni giorno di più, e dire che allo specchio non ero neanche quel belvedere, avevo un naso gonfio e congestionato, fluidi verdi che di tanto in tanto si riversavano all'esterno delle mie narici infiammate come crateri vulcanici, e poi la bolla nelle orecchie che mi inglobava, ma in modo soffice, quasi ovattato. In fondo non mi dispiaceva.
Dopo i primi venti giorni di cura mi ripresentai allo studio del Dottor Assone Alberto, con completo gessato giallo, cappello a falde bianco, orologio con brillantini, portafoglio di pitone collegato alla cintura abbinata da un fine laccetto in pelle. Al collo, una catenina realizzata da artigiano orafo su mio progetto; scarpe bianche come il cappello; calzini neri per staccare.
"Buongiorno, cosa mi dice", cominciò lui cordiale, "mi sembra di vederla più sollevato".
"Sollevato, certo", risposi "nella mia bolla cammino a sei metri da terra!". E scoppiai in una risata.
Continuai a parlare per settanta minuti di me, solo di me, dall'infanzia ai posteri che mi avrebbero ricordato; dei miei progetti e delle mie idee brillanti, anzi, sberluccicanti. Alla fine mi ritrovai on la voce rauca, perchè per sentirmi ero costretto ad urlare.
"Mi dica un'ultima cosa", mi interpellò il dottore, "riesce a dormire la notte?".
"Dormire? Guardi, lo faccio proprio per preservare l'integrità fisica, perchè ormai le ventiquattro ore non mi bastano per pensare. Prendo le gocce di Eurelass Plus Plus e dormo come un conoglietto, fino alle dieci-mezzogiorno".
"Molto bene", mi rassicurò il dottore, "vedo che ci siamo. Come le dicevo, porterei a 40 mg le compresse di Moral-Up Fast, per assestare la cura, poi ci rivediamo tra venti giorni. Sono 90 euro".
"Grazie dottore, eccone 100, il resto è mancia!".
"Non accetto mance,io.", disse facendosi gelido.
Ritirai il resto, in effetti lo facevo più affabile...
Passarono i giorni, tra un aperitivo in piazza, una lettura di poesie in biblioteca, partecipavo a dei dibattiti, e devo dire senza falsa modestia che commentavo di tutto, e rimanevo sempre l'ultimo in sala. A seguire, un altro aperitivo, dove conoscevo sempre gente nuova, e infine a letto dei bei sonni profondi. Un senso di pienezza mai raggiunto prima appagava la mia vita, peccato per la bolla, che non era neanche più una bolla, ma uno scafandro. Anche le tonsille erano enormi, ma non me ne curavo.
Fu una mattina verso le dieci, mentre sognavo di tenere a Varsavia una conferenza sui comò d'epoca, le sinfonie di Beethoven e i cavatappi automatici, che suonò a lungo il citofono. Si trattava del postino con una raccomandata. La aprii, era la lettera di licenziamento, da parte del mio datore di lavoro. Per reiterata e ingiustificata assenza, così c'era scritto. Dovetti respingere l'idea succulenta di come spendere i soldi della liquidazione, e mi costrinsi ad elaborare un bel discorso in mia difesa. Per qualche giorno di assenza un licenziamento? Vero era che ultimamente con i suoni facevo cilecca, ma lo sapevano loro della mia bolla, che mi costringeva a vivere nell'ottava dimensione? Forse no, ci voleva che lo spiegassi, e tutto si sarebbe risolto. Adorato ottimismo!
Presi appuntamento col mio capo, che non parve molto contento di vedermi. Tentai di scioglierlo con qualche mia battuta sagace, però lui andò dritto al fatto del licenziamento.
"Lei svolge male il suo lavoro, e quel che è peggio è che sembra disinteressarsene. Basta vedere quante volte manca al lavoro, o si presenta solo di pomeriggio, con quel sorriso strafottente, come se non sapesse che qui di fonico ce n'è uno, e che per registrare tutti aspettano lei!".
Eh no, la mia vita era allegra, chi era lui per rovinare la festa. Scommisi che provava una grande invidia. Cominciai a parlare di me, come se fossi seduto di fronte al Dottor Assone. Parlai e parlai, e vidi come in un quadro cangiante in stile cinese, cambiare colore ed espressione la faccia del capo. E quando sentii il fuoco alla gola darmi lo stop, esclamai: "Grazie per l'ascolto, le lascio 100 euro!". E mi esplose dalla gola in fiamme quella mia grossa risata, e per lo scoppio fragoroso due fiumi di muco verde colarono copiosi da entrambe le narici.
Il capo si alzò di scatto con la faccia disgustata,e lasciando l'ufficio di corsa, mi gridò: "Lei è licenziato! E veda di curarsi quel suo raffreddore!".
"Raffreddore ??".
"Scusi, come ha detto?" - mi gettai dalla sedia inseguendolo - " ha detto RAFFREDDORE?".




IL BILANCINO DI PRECISIONE - Kiki Bobò -



Sono un bilancino-ino-ino. L'oro non lo peso perchè mi frantumo di fronte al suo inespressivo bagliore. Lo  zafferano no perchè non è dello stesso giallo del sole. I batteri e i microbi no, perchè sono un bilancino schizzinoso. Il plancton, vedi sopra.
Sono uno strumento d'equilibrio e di precisione, e anche di grande portata: i quintali e le tonnellate non mi sono estranei, nonostante il mio esiguo scheletro. Ma cosa soppeso?
Metto in equilibrio quello che c'è, e che non si vede.
La gioia con la nostalgia. La rabbia e la tolleranza. La calma con l'agitazione. L'inquietudine con l'appagamento.
Se sei fortunato e vivi in maniera piena il tuo qui e ora, la nostalgia ti farà comprendere quella sfumatura del cielo che non è colore acceso, e che tu non guardi. Se la tua nostalgia è tale da lasciare la tua anima sempre sospesa, la gioia ti travolge e ti pianta a terra, a baciare il terreno sul quale cammini.
Se la rabbia ti si para davanti agli occhi, la tolleranza ti apre lo sguardo ai lati, per vedere l'Altro e anche l'Altrove. Se la tolleranza ti smorza la capacità di critica, la rabbia ti dice permesso e poi reagisce.
Se la calma rende piatti, l'agitazione provoca per lo meno varie reazioni chimiche. Se da agitato hai mosso una tempesta, con la calma raccogli i rami spezzati e i cocci rotti.
Se l'inquietudine erode le papille gustative della vita, l'appagamento sazia in tutti i sensi. Se da appagato scopri che anche il Nirvana dopo un po' è una palla, l'inquietudine è quello che ci vuole per ritrovare il sano tormento di tormentarsi (in un unico termine, haime tedesco, "Sensuct").
Sono un bilancino e sui miei piatti si posano le pietanze più strane che ci sono. Non si vedono, eppure nutrono la vita.